Reflexiones diarias sobre argumentos de espiritualidad y vida carmelitana, con incursiones en el mundo del arte y de la cultura

jueves, 26 de marzo de 2015

Santa Teresa d’Avila nel suo contesto


Avila 1515. Santa Teresa d’Avila nel suo contesto. P. Eduardo Sanz de Miguel, o.c.d. 
1.  Introduzione, 2. Guerre e conflitti, 3. I gruppi sociali, 4. La «honra», 5. La discriminazione delle donne, 6. La religiosità imperante, 7. Conclusione.

1. Introduzione

Sappiamo che santa Teresa è maestra di orazione ed una delle più grandi mistiche della storia, ma a volte soprassediamo sulla sua dimensione umana, che risalta ancor più se considerata nel contesto storico in cui visse. Abituati come siamo a guardarla nei quadri, che la rappresentano tra angeli e nuvole, possiamo dimenticare che fu donna terrena, pienamente consapevole di trovarsi in una situazione di inferiorità a causa del suo sesso. Non solo fu cosciente, ma s’impegnò tenacemente per cambiare quelle cose che a lei non piacevano. Il quinto centenario della sua nascita è un’oportunità per riscoprire la freschezza della sua proposta di vita e del suo messaggio.

Come ben sappiamo, Santa Teresa nacque ad Avila, in Spagna, nel 1515 e visse durante il «Rinascimento» europeo, ai tempi della Riforma protestante e del concilio di Trento. Fu contemporanea di Erasmo da Rotterdam, Martin Lutero, Michelangelo Buonarroti, Carlo V e Filippo II.

La sua fu un’epoca complessa: la scoperta dell’America e le conquiste in Africa e in Asia, ampliarono i confini del mondo; la società medioevale (di sussistenza agricola e rurale) si trasformò in una nuova realtà (urbana, nella quale il commercio e le botteghe artigianali acquisirono sempre più importanza). I cambiamenti socioeconomici furono accompagnati da nuove strutture politiche (sorsero gli Stati moderni) e culturali (le università e la stampa acquistarono un’importanza fondamentale nella trasmissione delle idee). Possiamo parlare di un vero cambiamento epocale, che colpì oltre agli ambiti del vivere e del pensare anche le forme di praticare la religione.

Fu qualcosa di simile a quello che accade ai nostri giorni, in cui le vecchie strutture sociali, educative, politiche e religiose sono in crisi, al punto da disorientarci e non farci capire dove siamo diretti.

Teresa fu contemporanea di quegli autori che riformularono la teologia durante il concilio di Trento e che segnarono la vita della Chiesa nei secoli a venire: Domenico de Soto, Alfonso Salmerón, Giovanni Arza, Francesco di Vitoria, Alfonso di Castro, Diego di Covarrubias, Melchiore Cano, ecc. I loro scritti hanno goduto di una grande riconoscenza nei secoli ma nessuno li legge ancora ai giorni nostri! Le opere di santa Teresa invece continuano a essere tradotte e pubblicate in numerose lingue: nel 2008 è stato pubblicato un volume di bibliografia teresiana che raccoglie 12.647 titoli di opere su santa Teresa, tra biografie, studi storici, letterari e teologici, materiale audiovisivo, ecc. Il cospicuo numero di queste pubblicazioni ci dà un’idea del grande interesse che questa donna continua a suscitare in tutto il mondo.

Ma, che cosa la rende così attuale da farci ancora interessare a lei dopo tanto tempo? La risposta è semplice: la sua esperienza. Teresa non teorizza su questioni più o meno importanti, slegate dalla vita concreta, ma piuttosto mira all’essenziale: condivide l’esperienza di Dio che le si manifesta nella sua storia personale e ci insegna a incontrarlo nella nostra vita e a dialogare con Lui.

Teresa di Gesù riunisce in sé un’instancabile attività di viaggi, acquisti di case, negoziazioni per ottenere permessi… (che raccoglie nel libro delle Fondazioni e nelle sue innumerevoli lettere) e un profondo vissuto interiore che sfocia in una mistica ardente (riflesso nel Castello interiore). In lei si uniscono atteggiamenti apparentemente opposti come l’introspezione e il desiderio di comunicazione, la ferma volontà di realizzare grandi imprese e la naturalezza nelle relazioni, la difesa decisa dei valori essenziali e la capacità di ripensarne altri adattandosi facilmente alle circostanze mutevoli. Questa unione armoniosa di realtà tanto diverse la rendono particolarmente attraente. Fu anche una donna molto simpatica: le malattie, i lavori, le umiliazioni e i disprezzi non riuscirono mai a spegnere il suo ottimismo né il suo buon umore.

Teresa nacque e visse nella Castiglia, allora cuore pulsante della Spagna, che segnava in Occidente le strade della vita e della politica, ivi compresa la moda. In quegli anni la monarchia spagnola raggiunse il suo massimo potere economico, militare, politico e religioso. È il cosiddetto «secolo d’oro» spagnolo, nel quale le università di Salamanca e Alcalá furono riferimenti culturali a livello europeo; le Belle Arti conobbero uno sviluppo e una creatività senza precedenti nei paesi e nelle città, che si riempirono di templi, palazzi, ospedali, edifici pubblici e fontane.

Dal cuore della Castiglia, Filippo II governò un impero esteso come mai visto in precedenza né che si sia mai ripetuto in seguito, tale che «in esso mai tramontava il sole», formato dalle terre della Castiglia (con i suoi possedimenti nel Nord d’Africa, nell’America e nelle Filippine), dell’Aragona (con i suoi possedimenti nel sud della Francia e nel Mediterraneo: Napoli, Sicilia, Sardegna, Oran, Tunisia, il Rossiglione, la Franca Contea, la Catalogna e Valenza), della Navarra, dei Paesi Bassi, dell’Impero romano-germanico, del Milanese, del Portogallo (con le sue colonie in Africa e Asia).

Secondo me, sono cinque le caratteristiche principali di quella società, che ci aiutano a capire la vita, il linguaggio e gli atteggiamenti di Teresa, ma anche la novità delle sue proposte: ella fu una persona della sua epoca che però nn s’identificò totalmente con essa:

1. La situazione di guerre e di conflitti caratterizzata dall’ideale cavalleresco (Don Chisciotte è la sua migliore manisfestazione).

2. La rigida divisione della popolazione in classi sociali, chiaramente distinte tra di loro.

3. Il peculiare senso dell’«onore» (la «honra»), che era il movente primo di tutte le attività ed aspirazioni di quella società.

4. La sottomissione della donna all’uomo, in tutti gli ambiti della società e della Chiesa.

5. La profonda inquietudine religiosa, che coinvolgeva tutti gli strati della società.

Penso che sia importante soffermarci su queste realtà, perché solo così possiamo capire che Teresa visse immersa nella società castigliana del XVI secolo senza integrarsi completamente con essa; fu cosciente di ciò che i suoi contemporanei ritennero «valori», ma non li ammise tutti e quelli che ammise non li accettò allo stesso modo in cui la maggior parte della gente li accettava. Non fu fuori dalle strutture sociali del suo ambiente ma si mantenne sempre ai suoi margini; ciò le consentì di guardare con occhio critico ai costumi e alle istituzioni che altri accoglievano con spontaneità e perfino la sua stessa religiosità non si identificò totalmente con le pratiche e devozioni del suo ambiente.

Lei fu pienamente cosciente della situazione sociale della sua epoca. È sorprendente la quantità di riferimenti che troviamo nelle sue opere al concilio di Trento, alle guerre di religione, alle rivolte dei mori, agli scontri con la Francia e il Portogallo, ai processi inquisitoriali, agli Indici dei libri proibiti, alle conquiste americane e ai prodotti che da lì arrivavano: patate, cocco, ecc.

Teresa ebbe contatti diretti o epistolari con persone di tutti i ceti sociali del suo tempo: il re Filippo II e i suoi segretari, corrieri maggiori ed amministratori, principi e principesse, viceré, cortigiani e nobili rurali, professori universitari e studenti, contadini e mendicanti, banchieri e mercanti, muratori e trasportatori.

Tra gli ecclesiastici trattò con cardinali, nunzi e vescovi, teologi e missionari, religiosi di quasi tutte le congregazioni contemporanee, potenti badesse e indecise monachelle, senza dimenticare i numerosi santi canonizzati della sua epoca: Pio V, Pietro di Alcántara, Giovanni d’Avila, Luigi Bertran, Francesco Borgia, Giovanni de Ribera, Giovanni della Croce; qualcosa di inaudito per una donna del XVI secolo e ancor più monaca di clausura!

2. Guerre e conflitti

Abbiamo parlato dell’impero spagnolo, nel quale non fu facile mantenere unite terre e genti così diverse e geograficamente così lontane tra di loro; tanto che, per vari motivi, le truppe spagnole si videro coinvolte in numerose guerre motivate da ideali di conquista, frutto di cinquecento anni di scontri contro i mori per la «Riconquista».

In primo luogo, le conquiste nel Pacifico e nell’America, alle quali parteciparono molti conoscenti e parenti di Teresa. A tredici anni, ella era a conoscenza dell’arrivo a Toledo di Hernán Cortés, conquistatore dell’impero di Montezuma, accompagnato da indios, animali e frutti esotici. Poco dopo, tutti i suoi fratelli e altri parenti e conoscenti di Avila partirono per le Indie, dove combatterono a fianco dei fedeli alla corona contro Pizarro e i ribelli.

In secondo luogo, le guerre di religione tra cattolici e protestanti, che devastarono l’Europa tra il 1524 e il 1648. Tra tutti gli scontri dell’epoca, questo fu il più lungo e doloroso. È vero che i motivi reali dello scontro furono il contrasto tra gli interessi dei principi territoriali tedeschi e quelli dell’imperatore, tuttavia, le diverse fazioni assunsero atteggiamenti a favore di Roma o di Lutero, per cui lo scontro acquistò un carattere religioso. Ciò determinò che alcune pratiche cristiane tradizionali, che fino al concilio di Trento erano normali (come la lettura della Bibbia o l’orazione silenziosa), fossero guardate con sospetto e anche proibite negli ambienti cattolici, perché favorite dai riformatori.

In terzo luogo, le armate spagnole si videro coinvolte in molti altri conflitti internazionali causati da interessi economici: scontri con la Francia per il controllo di Napoli e della Lombardia (lo stesso padre di Teresa partecipò come cavaliere nella guerra di Navarra, nella quale rimase ferito sant’Ignazio di Loyola); scontri con il Papato per in controllo di altri territori nella penisola italiana (il famoso «sacco» di Roma ebbe luogo quando Teresa aveva dodici anni); scontri con i berberi (tribù del nord dell’Africa) e con i turchi ottomani per il controllo del Mediterraneo (la battaglia di Lepanto ebbe luogo nel 1571); scontri con l’Inghilterra per il controllo dell’Atlantico (la sconfitta dell’Invincibile Armata è del 1588); scontri con i Paesi Bassi che cercavano l’indipendenza e con il Portogallo per diritti di successione…

Finalmente, in quarto luogo, non possiano dimenticare le rivolte popolari dentro la penisola Iberica: nella Castiglia, in Aragona, a Valenza, per cause economiche, e l’insurrezione dei mori per cause religiose (dal 1568 al 1571 si svolse la guerra delle Alpujarras di Granada).

Troppi scontri per una popolazione di appena sei milioni di abitanti. Le famiglie spagnole videro partire uno dopo l’altro tutti i loro uomini sicché cominciarono a mancare le braccia necessarie per la coltivazione della terra. Tutto questo, insieme ad alcuni anni di siccità e al continuo aumento delle imposte per mantenere quella grande macchina bellica, provocò fame e miseria. La famiglia di san Giovanni della Croce ne fu un esempio significativo: suo padre e suo fratello morirono di fame e un altro fratello sopravvisse arrabbattandosi per il resto dei suoi giorni. Quelli a cui fu possibile emigrarono in America, come feccero tutti i fratelli di Teresa e molti suoi conoscenti.

L’arrivo dell’oro e dell’argento americani fece aumentare l’inflazione, malgrado una gran quantità ne passasse direttamente dalle navi ai depositi degli istituti di credito stranieri, tanto che la monarchia dovette dichiarare bancarotta in varie occasioni. Tutto questo provocò numerose rivolte popolari che furono sedate senza pietà. Il popolo dovette darsi da fare e inventare mille stratagemmi per sopravvivere. La letteratura «picaresca» dell’epoca (caratterizzata dalla descrizione delle avventure dei «picari», che sono popolani furbi, imbroglioni e privi di scrupoli) illustra perfettamente le contraddizioni di quel tempo. Due titoli dell’epoca molto conosciuti sono La Celestina e Il Lazarillo de Tormes.

3. I gruppi sociali

La seconda caratteristica che distingue la società nella quale visse Santa Teresa è la rigida divisione della popolazione in classi sociali, chiaramente distinte tra loro dalla forma di presentarsi, dai comportamenti e dai ruoli sociali, ben definiti in ciascun caso. Possiamo parlare di cinque gruppi (con gradazioni all’interno di ciascuno di essi):

I nobili formavano il gruppo dominante. Erano i proprietari della maggior parte delle terre e dei beni di consumo, occupavano i posti chiave dell’amministrazione pubblica (sia civile che ecclesiastica), vivevano di rendite, rifiutavano il lavoro manuale, erano esenti dal pagamento delle tasse ed avevano tribunali propri, senza che potessero essere torturati né condannati per alcuni delitti né incarcerati nelle prigioni normali. Tra di loro abbondavano i convenzionalismi, i titoli e i trattamenti di cortesia (cf. V 37,6-10).

Accanto a loro, deteneva il potere economico una borghesia dedita al commercio, composta per lo più da discendenti di ebrei. A questo gruppo erano tuttavia vietati la maggior parte degli incarichi politici e i trattamenti d’onore, motivo per il quale la loro maggior bramosia era quella di inserirsi nella casta dei nobili che spesso riuscivano a raggiungerere acquistando dei certificati di «hidalguía» (nobiltà) con ingenti somme di denaro. È il caso della famiglia di Teresa.

I chierici ed i religiosi costituivano un gruppo numeroso (che oscillava tra il dieci e il venti per cento della popolazione) tra i quali vigevano le stesse divisioni presenti nel resto della società. L’alto clero si dedicava all’amministrazione delle rendite e proprietà, mentre la maggior parte dei sacerdoti, delle comunità religiose e dei monasteri partecipava alle stesse difficoltà del popolo per quanto riguarda le necessità vitali. Teresa apprezza sinceramente i vescovi, religiosi e sacerdoti, che non considera «burocrati ecclesiali» ma «capitani» dei cristiani e «difensori» della causa di Cristo (cf. C 3,1-2).

La grande massa dei contadini e degli operai, che era per lo più analfabeta, lavorava dall’alba al tramonto sopravvivendo a stento con il frutto della propria fatica e si trovava in grandi difficoltà, specialmente negli anni di siccità, quando salivano i prezzi dei beni di prima necessità.

I «poveri in canna» formavano una categoria sociale specifica che tuttavia poteva aspirare ad aiuti sociali concessi da confraternite ed istituzioni assistenziali dell’epoca. Si veniva riconosciuti membri di tale categoria solo dopo aver dimostrato che non si possedevano beni né possibilità per acquisirli, né famiglia che li potesse sostenere.

4. La «honra»

La terza caratteristica dell’epoca fu il peculiare senso dell’«onore» (la «honra»), che era il motore primo di tutte le attività e aspirazioni di quella società, e che oggi a noi risulta tanto difficile da capire. Allora, la «honra» era intesa come un riflesso dell’opinione altrui (s’identificava cioè con la reputazione, il prestigio). Per i nobili si confondeva l’essere «onesto» (possedere virtù) con l’essere «onorato» (ricevere onore) e per questo tutti aspiravano a diventare nobili.

In spagnolo, infatti, la parola «honrado» puo avere i due significati («onesto» e «onorato»). Pertanto, era «honrado» colui che riceveva onori dalla società, colui che era rispettato, colui al quale si riconoscevano alcuni diritti, indipendentemente di come fosse condotta la propria vita privata.

Lo afferma chiaramente Lope de Vega quando nella sua opera I commendatori di Cordova scrive: «Nessun uomo è onorato da se stesso, dall’altro riceve l’onore un uomo. Essere virtuoso e avere meriti non è lo stesso che essere onorato. Da ciò deriva che l’onore sta in un altro e non in se stesso». E lo riconfermano le parole di Teresa quando dice: «Gli onori, secondo me, van sempre d’accordo con le ricchezze […]. Sarebbe, infatti, assai strano trovare un povero onorato dal mondo! Anche se fosse degno di ogni onore, sarebbe sempre tenuto in poco conto» (CE 2,5-6). La «honra», dunque, è quello che gli altri pensano di noi, la considerazione che essi hanno di noi.

La «honra» si esprimeva in una serie di titoli e di gesti propri di ciascuna classe sociale. Il mancato rispetto delle convenzioni sociali era ritenuto un’onta o disonore, che doveva essere punito. Per «honra» si poteva uccidere o lasciarsi morire di fame (si pensi a tutti i personaggi che sfilano nella letteratura «picaresca» dell’epoca: laureati, nobili o chierici in rovina, che possedevano solo una camicia, o dormivano per terra, o non avevano da mangiare, ma non si privavano di domestica e scudiero).

La «honra» implicava il riconoscimento sociale, ma era anche una vera schiavitù: il vestiario, gli alimenti, i gesti, i modi di trattare... dovevano essere consoni alla propria condizione, il che porta Teresa a scrivere: «Oggi il mondo è arrivato a tal punto che bisognerebbe che le vite fossero più lunghe per poter imparare tutti i comportamenti, le cerimonie, e le nuove manifestazioni di rispetto [...]. Se nel trattare con la gente si cade in qualche distrazione e non si rende loro un omaggio maggiore di quello che meritano, la cosa viene presa sul serio, se n’offendono, e occorre discendere a spiegazioni, assicurandoli della nostra buona intenzione con la scusa che in quel momento si era alquanto distratti [...]. Ci vorrebbe una scuola soltanto per i titoli delle lettere e per imparare il modo di comporle, perché ora bisogna lasciare il margine da una parte e ora dall’altra, e stare attenti a dare il titolo d’illustre a chi prima non si dava nemmeno del magnifico. [...] Giacché il Signore mi ha dato di esserne lontana da questo modo di fare, voglio abbandonarlo del tutto. Se lo goda chi con tanti sacrifici si sottomette alle sue frivolezze» (V 37,9ss).

Il lavoro manuale era considerato inadatto alla gente onorata, eccetto la coltivazione della terra, associata sempre ai «cristiani vecchi» (così erano chiamati i cristiani da molte generazioni). I discendenti degli ebrei convertiti o degli schiavi e coloro che esercitavano uffici considerati vili erano continuamente esposti agli oltraggi, potevano essere messi in carcere per qualsiasi motivo e non potevano, in alcun modo, aspirare ad appartenere alle classi sociali influenti. Inoltre molti incarichi, sia civili che ecclesiastici, erano loro proibiti.

È sorprendente la quantità di pagine che santa Teresa dedica alla «peste della honra» o ai «brutti punti d’onore». Insegna alle sue monache a liberarsi da questa piaga per essere veramente libere: «Il mondo oggi si governa di tal guisa che se il padre è di condizione più bassa del figlio, questi si ritiene disonorato nel riconoscerlo per tale. Ma questo per noi non ha luogo, perché simili sentimenti sarebbero un inferno. Quella che è di più nobile famiglia abbia in bocca, meno di tutte, il nome di suo padre, perché qui dovete essere tutte uguali». Nelle Costituzioni arriva a ordinare: «Né la priora, né qualunque altra sia chiamata col titolo di Donna». Della «honra» e della fama scrive che sono «artefatti sociali», che compromettono la verità e la libertà. Commentando il Padre nostro dedica un intero capitolo al tema: «Quanto importi non tener conto del proprio lignaggio per essere veri figli di Dio» (CE 27).

Anche se le istituzioni religiose, come quelle civili, richiedevano a coloro che volevano farne parte un certificato di «limpieza de sangre» (certificato di «sangue pulito» che dimostrasse che non erano figli illegittimi nati fuori dal matrimonio, né discendenti di ebrei, musulmani, zingari, indi o neri), lei non permise mai che questa norma entrasse nelle sue Costituzioni. Solo dal superamento di questa schiavitù della «honra» (reputazione, riconoscimento sociale, convenzioni, pregiudizi), possiamo capire la sua libertà di spirito, che attraeva molti e scandalizzava alcuni.

5. La discriminazione delle donne

Precorrendo i tempi, Teresa rivendicò con forza la possibilità che le donne potessero formarsi e decidere liberamente, senza essere soggette all’autorità maschile. Questo le procurò molti problemi, ai quali fece fronte con determinazione. In questo campo è un modello per la nostra società, che ancora deve progredire molto nell’offrire pari opportunità ad ogni persona, affinché possa sviluppare le proprie capacità e decidere in modo autonomo, indipendentemente dal sesso, dalla razza e da altre condizioni sociali o economiche.

La globalizzazione dell’informazione, alla quale ci ha abituati Internet, ci permette di sapere che ai nostri giorni ci sono ancora paesi in cui alle donne è proibito di guidare un veicolo, e in altri l’accesso alla cultura e persino di uscire di casa senza la compagnia di un uomo. Sono immagini che feriscono, perché ci fanno prendere coscienza del dramma di cosa significhi essere donna in alcune regioni del pianeta: come il caso delle donne afghane costrette a coprire totalmente il volto con il burqa, ma ancora di più delle bambine sottoposte a mutilazioe e ad infibulazione dei genitali nel Nord Africa, delle donne lapidate come adultere in diversi paesi del Medio Oriente e dei femminicidi estesi in molte regioni del pianeta.

Ma non tutti hanno la sensibilità necessaria per rendersi conto della gravità di questi episodi. C’è chi li considera normali e perfino chi li giustifica come espressione di una data cultura. Non va poi dimenticato che, in altri tempi, la stessa situazione del sesso femminile si riscontrava anche in Occidente e che ancora manca molto perché si raggiunga oggi una reale uguaglianza di diritti nella società e nella Chiesa.

Se siamo arrivati a comprendere che queste condizioni non sono da accettare, malgrado siano abituali in molti luoghi, è grazie alla riflessione che molte donne ne hanno fatto e alla loro lotta per ottenere pari opportunità con gli uomini. Tra esse, Teresa di Gesù occupa un posto particolare, sia per la profondità che per la precocità del suo pensiero.

Nel raccontare la storia della benefattrice del monastero di Alba de Tormes, Teresa de Layz, dice che questa, alla nascita, fu sul punto di morire perché abbandonata dai suoi genitori e parenti, che non le diedero alimenti né altre cure per il solo fatto che era femmina. E aggiunge: «I genitori di Teresa avevano già quattro figlie, quando ella venne al mondo, e nel vedere che era anch’essa una figlia, rimasero molto disgustati. Fa pena vedere i mortali disconoscere quel che a loro conviene! Completamente all’oscuro dei disegni di Dio, ignorano i grandi beni che possono avere dalle figlie e i tanti mali che possono venire dai figli. E tuttavia vorrebbero opporsi a Colui che sa tutto e tutto crea, consumandosi dal dispiacere per quello che dovrebbe invece rallegrarli» (F 20,2-3).

In un mondo dominato da uomini, Teresa difese il diritto delle donne a formarsi e a decidere liberamente, creando spazi nei quali potevano essere autonome e autogestirsi. Era convinta che una donna avesse le stesse capacità di un uomo e che potesse svilupparle solo essendole concessa l’opportunità di formarsi; per questo insiste tanto nel diritto delle monache ad avere libri e a studiare. Attraverso la sua parola e i suoi scritti, Teresa influì notevolmente su molti dei suoi contemporanei, i quali rimasero convinti delle sue ragioni: il teologo Domenico Báñez, l’inquisitore Francesco de Soto, il suo compagno di avventure carmelitane san Giovanni della Croce e ivi compreso il grande umanista fra Luigi de León, primo editore delle sue opere.

Alle donne, non solo era negato l’accesso agli studi regolari ma neanche era visto di buon occhio che sapessero leggere. La possibilità per cui qualcuna di loro osasse diventare maestra per mezzo della parola orale o scritta era qualcosa di assolutamente impensabile. Tutti ritenevano che la donna fosse debole per natura, incline al male e facilmente manipolabile dal demonio, per cui andava guardata con sospetto. La maggior parte era convinta che dovesse rimanere sempre sotto la tutela di un uomo e, a questo proposito, si citavano principalmente tre autorità: in primo luogo il libro della Genesi, che dice che ella fu ingannata dal demonio nel momento del peccato originale; in secondo luogo, san Paolo, che chiede che siano sottomesse ai loro mariti e che tacciano nella Chiesa; per ultimo, san Tommaso che, seguendo Aristotele, considerava la donna un uomo incompleto. Teresa sapeva tutto questo e contro questa situazione cercò di ribellarsi, anche se era pienamente cosciente del pericolo che correva; perciò raccolse con apparente sottomissione questi argomenti nei suoi scritti.

In realtà, la donna era quasi considerata alla stregua di un oggetto: sottomessa sempre alla tutela del padre, dello sposo o dei figli maschi. I suoi ruoli si riducevano ad assolvere il lavoro domestico, perpetuare la specie e soddisfare le esigenze sessuali del marito al cui arbitrio era del tutto sottomessa. Fra Luigi de León, per esempio, già fin dal prologo della sua famosa opera La moglie perfetta afferma che la missione della donna è «servire il marito, governare la famiglia ed educare i figli». Nello spiegare i servizi e le attenzioni che deve avere nei riguardi dello sposo, chiarisce: «Non è grazia e generosità questa attività, ma giustizia e dovere che la donna deve al marito, e che la sua natura ha addossato a lei, creandola per questo dovere, che è compiacere e servire, allietare e aiutare nei lavori della vita e nella conservazione del patrimonio colui con il quale si unisce in matrimonio […]. E poiché egli è costretto a farsi carico dei problemi di fuori, così lei lo deve sopportare e sollazzare quando torna a casa sua, senza che nessuna giustificazione possa disobbligarla» (cap. IV).

Non è senza significato che, quando alcuni contemporanei di Teresa volevano farle un complimento dicevano che «non sembra una donna» o che «ha il coraggio di un uomo». Lei stessa lo riconosce e raccoglie, nei suoi scritti, le opinioni di quelli che dicono che il suo coraggio è più grande di quello delle donne (cf. V 8,7). Valga d’esempio quello che accadde a padre Juan de Salinas, provinciale dei domenicani, il quale richiamò l’attenzione di padre Domenico Báñez, perché aveva sentito dire che era amico di Teresa, avvertendolo di non avere fiducia nei confronti delle donne, «le cui virtù bisogna considerare sempre con sospetto». Padre Báñez gli rispose che, giacché lui andava a predicare la quaresima a Toledo e lei era lì, poteva cogliere l’occasione per conoscerla personalmente così da poter comprendere il suo apprezzamento per lei. Al ritorno, Salinas rimproverò Báñez: «Mi avete ingannato! Mi avete detto che era una donna e secondo me è un uomo e di quelli molto virili!».

Malgrado i pregiudizi antifemministi della sua epoca, la vita e gli scritti di Teresa sono una difesa ad oltranza del diritto della donna a pensare liberamente e a prendere decisioni autonomamente: non vuole che qualcuno si intrometta nella vita quotidiana delle sue monache. Dovette fare molti sforzi perché esse potessero autogestirsi, perché avessero libertà di scegliere confessori e consiglieri, e non stessero sottomesse in tutto agli uomini: qualcosa di inconcepibile per la sua epoca.

Lo vediamo in modo speciale nella corrispondenza degli ultimi anni: «Questo è ciò che temono le mie religiose: la venuta di alcuni pesanti superiori che le opprimano e le aggravino troppo» (Lett. 89,1 a padre Girolamo Gracián, del 19/11/1576); «Ritengo molto importante il fatto di stabilire, per sempre, che i confessori non siano vicari (cioè superiori) delle religiose. [...] È anche necessario che non siano neppure soggette ai priori […]. Ciò che riguarda le nostre Costituzioni non è necessario trattarlo al Capitolo dei frati, né informare gli altri» (Lett. 159,1.4 a padre Girolamo Gracián, del 02/1581); «Non è necessario informare i frati sulle nostre cose» (Lett. 59,4 a padre Girolamo Gracián del 02/1581).

Teresa era pienamente consapevole della situazione d’inferiorità in cui si trovava ed ebbe bisogno di usare continuamente le sue abilità persuasive perché le sue opere e lei stessa non andassero a finire al rogo. In tutti i suoi libri insiste sul fatto che lei avrebbe dovuto occupare il suo tempo a filare col fuso, dato che questo era proprio quello che la società contemporanea si aspettava da una donna; e aggiunge che se scrive è «per obbedienza» ai suoi confessori o, perlomeno, «con il loro permesso».

Sono molti gli autori che continuano a insistere sul fatto che Teresa non scrisse di propria iniziativa, ma «per obbedienza», quando la realtà invece è totalmente diversa: lei ha dovuto superare le molte difficoltà che, nella sua epoca, una donna incontrava nel dedicarsi alla scrittura e per questo sviluppò una «retorica della sottomissione», che bisogna tenere ben presente se vogliamo comprenderla.

Teresa sapeva che era necessaria l’approvazione da parte dei «dotti», ovvero quegli uomini che avevano autorità per determinare l’ortodossia o l’eterodossia dei suoi scritti. Per guadagnare il loro favore, ad ogni passo cerca di giustificare la sua attività, mostrandosi come inoffensiva, confessando di accettare gli argomenti sull’inferiorità della donna (sebbene subito affermi il contrario), insistendo che «me lo hanno molto comandato… in tutto mi sottopongo al parere di quelli che sanno più di me… trovo difficile mettermi a scrivere, quando dovrei occuparmi nel filare… di questo dovrebbero occuparsi altri più esperti e non io, perché sono molto debole e vile… poiché non ho cultura, potrà essere che mi sbagli… scrivo per donne che non comprendono altri libri più complicati…» e cose simili.

Nei margini dei suoi scritti, malgrado tutti i suoi sforzi, possiamo trovare annotazioni dei censori come la seguente: «Pare che rimproveri gli inquisitori che rimuovono libri d’orazione». Gli stessi censori depennarono dal testo con grande furia una pagina intera che non si è potuta leggere, se non parzialmente e nei tempi più recenti con l’aiuto dei raggi X, e ancora oggi alcune righe non si possono decifrare: «Signore della mia anima, quando andavate per il mondo non avete aborrito le donne. Anzi le avete favorite sempre con molta pietà e avete trovato in esse tanto amore e più fede che negli uomini […]. Che non facciamo nulla per Voi in pubblico che valga qualcosa, né osiamo trattare di certe verità che piangiamo in segreto; ma avverrà per giunta che non abbiate ad ascoltare domanda così giusta? Io non lo credo, Signore, dalla vostra bontà e giustizia, perché voi siete giudice giusto e non come i giudici della terra, i quali – figli di Adamo come sono e, in definitiva, tutti uomini – non vi è virtù di donna che non tengano in sospetto […]. Che non è ragionevole rigettare animi virtuosi e forti, quantunque siano di donne» (CE 4,1).

Colpisce ancora oggi questa testimonianza personale per il fatto che le donne erano intimidite e costrette a piangere in segreto quello che non potevano dire in pubblico. Eppure, le sue lucide precauzioni furono utili e riuscirono a difendere la maggior parte dei suoi scritti fino ad oggi.

6. La religiosità imperante

La caratteristica più rimarchevole dell’epoca è tuttavia il profondo senso religioso, che coinvolgeva tutti gli strati della società: le manifestazioni religiose erano onnipresenti e abbracciavano la vita della popolazione in tutte le sue dimensioni, compresa quella civile. Basti considerare il gran numero di conventi, chiese parrocchiali, eremi e altri edifici destinati all’uso religioso, che troviamo ancora oggi sparsi in tutto il territorio spagnolo.

Leggendo la letteratura di quel tempo, si può notare che sia nelle città che nelle campagne, in pubblico come nell’intimità del focolare domestico, si parlasse abitualmente di questioni religiose: si discuteva sulla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, sull’esistenza del Purgatorio, sull’importanza di ricevere i sacramenti con disposizione adeguata e di fare opere buone per salvarsi...

Nei testamenti dell’epoca non mancano mai fondi per la celebrazione di messe e suffragi, più o meno grandi secondo la possibilità economica del defunto. Negli inventari che elencano gli oggetti lasciati in eredità da persone di tutte le condizioni sociali, non mancano mai quadri e sculture a tema religioso, mentre solo eccezionalmente compaiono soggetti di carattere profano (basti considerare il patrimonio dei musei spagnoli, caratterizato quasi esclusivamente da soggetti religiosi, a differenza di quelli olandesi, dove abbondano i paesaggi, o da quelli italiani ricchi di scene mitologiche). Lo stesso possiamo dire dei libri: di fatto, tra la metà del XV e la metà del XVI secolo (quando cominciano a comparire gli Indici dei libri proibiti), in Spagna si pubblicano diverse centinia di libri di ascetica e mistica.

Come Teresa, che fin da bambina leggeva la vita dei Santi e voleva imitarli, anche Ignazio di Loyola ed una moltitudine di loro contemporanei ebbero i Santi come modello di vita da imitare. I Santi, i professori di teologia, i missionari e i religiosi di vita austera esercitavano un’attrattiva per la gente del XVI secolo non meno di quella che oggi esercitano su di noi le stelle del cinema, gli sportivi di élite o i grandi impresari.

Inoltre, la principale attività sociale dell’epoca consisteva nell’ascoltare prediche e partecipare ad altre funzioni religiose. In tutte le famiglie vi erano vari membri che, operando nella propria patria o avventurandosi in missioni d’oltremare, si consacravano al servizio del Signore. Possiamo affermare che tutta la popolazione faceva parte di varie confraternite in onore della Vergine, dei Santi o dei misteri della Settimana Santa, così come di altre associazioni religiose con fini assistenziali a favore dei poveri, degli orfani, dei malati o dei carcerati.

Nella sua epoca, l’autenticità dell’esperienza religiosa si misurava con la capacità di rinuncia e con le penitenze. Nella vita dei Santi si leggevano i loro digiuni e i loro sacrifici. Lei volle imitarli con conseguenze fatali per la sua salute. Riflettendo sull’argomento, finisce per prendere distanze dalla mentalità comune e afferma: «Nella vita dei Santi ci sono cose da ammirare e cose da imitare». Le loro penitenze rientrano nella categoria dell’ammirabile, le loro virtù in quella dell’imitabile. Lei insisterà sulla pratica delle virtù, sull’identificazione con Cristo e con i suoi sentimenti, sull’unione amorosa con Lui, ma l’austerità e l’ascesi debbono praticarsi con soavità e moderazione, «insistendo di più sulle virtù che sul rigore, che questo è il nostro stile».

È questo un tema ricorrente nei suoi scritti e che non si stanca di raccomandare a suore, frati e secolari: «Si renda conto, padre mio, che io amo molto essere esigente per quanto riguarda le virtù, ma non per quanto riguarda il rigore, come si può vedere in queste nostre case» (Lett. 185,8 al p. Ambrogio Mariano di S. Benedetto, 12/12/1576); «Dove c’è tanta grande virtù, non è necessaria alcuna costrizione» (Lett. 328,3 alle Carmelitane Scalze di Soria, 28/12/1581); «Non mi sembra bene quello che mi dice, che si sveglia con quegli impeti d’amor di Dio e si alza [per pregare …]. Quanto al sonno, le dico, meglio, le ordino di non dormire meno di sei ore. Guardi che è necessario per noi che abbiamo già una certa età trattare il nostro corpo in modo che non faccia crollare lo spirito» (Lett. 6,16 al fratello Lorenzo, 02/1/1577 e Lett. 9,7 allo stesso, del 10/2/1577). L’austerità della vita non deve essere un fine in se stesso, ma un mezzo per concentrarsi sull’essenziale, evitando dispersioni. Questa proposta di Teresa attirava alcuni, ma era disprezzata e rifiutata da altri.

7. Conclusione

Teresa di Gesù fu una donna profondamente contemplativa ed efficacemente attiva. Perché si comprenda meglio l’originalità della sua proposta, l’abbiamo presentata nel contesto in cui ella visse, dal quale assorbì alcuni elementi e con il quale si scontrò per altri.

Papa Francesco ha scritto un messagio in occasione dell’apertura dell’anno giubilare teresiano in cui parla di quattro caratteristiche di Santa Teresa: la sua gioia, la dottrina sulla preghiera, la vita in fraternità e quello che lui chiama «il realismo teresiano», cioè la sua capacità di vivere il presente trasformandolo: «La sua esperienza mistica non la separò dal mondo né dalle preoccupazioni della gente. Al contrario, le diede nuovo impulso e coraggio per l’operato e i doveri di ogni giorno, perché “il Signore si aggira anche fra le pentole” (Fondazioni 5,8). Lei visse le difficoltà del suo tempo –tanto complicato– senza cedere alla tentazione del lamento amaro, ma piuttosto accettandole nella fede come un’opportunità per fare un passo avanti nel cammino. Perché “ogni tempo è buono per Dio, quando vuole favorire di grandi grazie coloro che lo servono” (Fondazioni 4,5)». Qui ci siamo soffermati soltanto su questa ultima caratteristica e cioè che Teresa fu pienamente cosciente delle circostanze storiche della sua epoca e che s’impegnò per incarnare il Vangelo proprio in quelle circostanze.

Siamo fermamente convinti dell’attualità dei suoi insegnamenti, e che essi possono aiutare il credente di oggi a trovare la via per incarnare la perenne novità del Vangelo nella società e nella Chiesa dei nostri giorni, per cui confidiamo che molti si avvicinino agli scritti di santa Teresa in questo quinto centenario della sua nascita. Lì scopriranno che «se la grandezza di Dio non ha limiti, non ne hanno neppure le sue opere» (7M 1,1). Il Dio che Teresa ci ha presentato come amico e compagno è ancora bramoso di comunicare con noi. Seguendo il suo esempio e la sua dottrina, apriamogli le porte del nostro cuore!

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